In un’edizione della Festa del cinema di Roma, contraddistinta da un’attenzione particolare all’importanza della diversità e all’orgoglio delle proprie origini, anche Goldstone sembrava sulla carta potersi aggiungere alla mole di film in cui razze diverse si scontrano inutilmente in nome di una superiorità inesistente. Nei primi minuti di film, infatti, vediamo circondato dal suggestivo panorama dell’outback australiano, il detective per metà aborigeno Jay Swan confrontarsi con il poliziotto Josh. Entrambi sono sulla scia di rapimenti e scomparse misteriose, attivando una corsa all’uomo che, apparentemente e solo superficialmente, farebbe di Goldstone un ibrido tra genere noir e western.
A differenza di quanto fatto da Mackenzie con Hell or High Water, Ivan Sen non riesce a far sue le norme del genere per poi superarle e modellarle a proprio piacimento. Il mondo da lui creato finisce per implodere su sé stesso, dando origine a una carambola disordinata di eventi privati della più logica consecutio causa. In Goldstone le scene si susseguono infatti senza un apparente motivo, o ragionamento logico. La stessa sceneggiatura, debole ed elementare, non fa che fomentare questo senso di irritabile confusione che si scatena nello spettatore. Sullo schermo vediamo gente che spara, che uccide per soldi, che cerca donne scomparse, ma tutto questo a che pro? Quali sono i motivi scatenanti di tutte queste azioni? Si sussegue nella testa dello spettatore una sequela di quesiti destinati a non ricevere risposta, lasciandolo lì nella sua catatonica confusione, privato della possibilità di instaurare una qualsivoglia relazione empatica coi personaggi.
Risulta inoltre possibile poter affermare che la creazione di una sceneggiatura così confusionaria sia una scelta voluta col preciso fine di generare un senso di disorientamento nello spettatore. Ivan Sen non è Brecht, né tantomeno Robert Bresson. Il fine primario di sconvolgere lo spettatore, coinvolgerlo nella serie di indagini e sub-plot che si vengono a creare, gli sfugge alla fine di mano, traducendo in immagini una storia assurda e fastidiosamente criptica.
Usciti dalla sala si ha come la sensazione che il vero thriller a cui ha partecipato lo spettatore sia quello avvenuto nella sua testa, nel momento in cui, attonito, ha tentato in tutti i modi di decifrare quanto ha visto sullo schermo per poi capire il vero significato dell’opera.
Non bastano due colpi di pistola per fare di un film un’opera d’azione, così come non basta l’uccisione di un aborigeno per fare un film di denuncia. Serve anche una caratterizzazione dei personaggi, e un loro approfondimento psicologico che qui viene del tutto tralasciato. Servono delle cause scatenanti degli effetti totalmente ingnorati. Per poter sovvertire un genere e attualizzarlo, serve conoscere e proporre in maniera implicita le regole basilari del cinema. In Goldstone tutto ciò viene a mancare. Peccato perché le intenzioni iniziali potevano apparire interessanti. Ma Ivan Sen ha dimostrato quanto le migliori intenzioni, se non sfruttate nella loro potenzialità, possono generare opere catastrofiche, al limite dell’assurdo.
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